lunedì 30 gennaio 2012

Apple e sfruttamento dei lavoratori cinesi: crescono gli inviti al boicottaggio della Mela

Pare proprio che la scomparsa di Steve Jobs abbia lasciato Apple più indifesa, vulnerabile. Senza l'ingombrante presenza del fondatore, il geniale self-made-man che era divenuto un'icona dello spirito imprenditoriale americano l'azienda da lui fondata, magrado i portentosi risultati di fatturato, sembra stare tornando ad essere un'azienda come le altre, e come le altre, quindi, chiamata a rispondere delle sue azioni. In primis, del suo comportamento verso dipendenti e fornitori. Senza la mistica del “capo”, le accuse peraltro non nuove, di sottopagare e fare lavorare in condizioni al limite della decenza i suoi dipendenti in appalto nelle fabbriche in Cina, hanno ripreso vigore e questa volta non paiono destinate ad essere liquidate tanto facilmente.

Anzi, iniziano, per la prima volta su questa scala, a levarsi voci di boicottaggio di melafonini e tavolette vendute a peso d'oro in Occidente, con margini del 60 % e anche 70 % grazie al lavoro sottocosto in Oriente. Ad accendere la miccia, questa volta, è stato un lungo reportage del New York Times che fa seguito a un altro articolo dedicato dalla stessa testata al fatto che il successo di Apple non si traduce nella creazione di posti di lavoro per gli operai americani.

Le due questioni sono correlate: alla società di Cupertino forse si poteva continuare a perdonare le sue magagne – i turni infiniti degli operai della Foxconn, la principale fornitrice del colosso It, i suicidi negli anni scorsi di diversi dipendenti della stessa, l'avvelenamento di altri a causa della scarsa osservanza delle norme di sicurezza nell'uso di prodotti chimici – finché l'economia girava a pieno ritmo; con la crisi che morde ancora, malgrado un accenno di ripresa, i guadagni delocalizzati della Mela danno ancora più fastidio.

“I consumatori dovrebbero boicottare Apple? - si è chiesto nei giorni scorsi il Los Angeles Times”. Altre testate prestigiose ed influenti come Forbes e The Daily Beast hanno ripreso l'argomento. “iQuit!” è il nuovo slogan dei moralmente impegnati. A questa prima ondata di sdegno, ha fatto seguito la replica di altri articolisti pro-Apple. La stessa Forbes, ha pubblicato un pezzo di Tim Worstall in cui molte della accuse vengono rubricate come “nonsense”, sciocchezze.

Brooke Crothers, su Cnet ha ricordato, realisticamente, che un eventuale boicottaggio non può fermarsi ad Apple: quasi tutti i giganti dell'hi-tech producono i loro gadget in Estremo Oriente dove le condizioni di lavoro non sono certo mai paragonabili a quelle svedesi.

L'amministratore delegato di Apple, Tim Cook, in una email ai dipendenti ha respinto le accuse del Timescome false e rivendicato l'attenzione e cura dell'azienda per ogni singolo dipendente. È vero però che unrapporto della stessa Apple, del 2011, confermava come in 93 delle 229 aziende fornitrici di Cupertino, non fosse rispettato il limite massimo di 60 ore settimanali di lavoro.

A spezzare una lancia in favore di Apple, ci ha pensato la società di consulenza Bsr, il cui presidente Aron Cramer ha inviato una lettera aperta al New York Times, chiedendo al giornale di correggere quelle che definisce delle gravi inesattezze. Nel pezzo del Times, veniva più volte citato un anonimo consulente Bsr, dando l'erronea impressione che le opinioni dello stesso coincidessero con quelle della società di appartenenza. Inoltre, non corrisponderebbe al vero, sempre secondo Cramer, il fatto che Apple non avesse tenuto in considerazione i suggerimenti di Bsr su come migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori cinesi.
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